Bentrovati lettori!
Con l’approfondimento di oggi saliremo ancora una volta sulla macchina del tempo che ci ha accompagnato nel lungo viaggio alla scoperta dell’evoluzione del Teatro. Se non hai ancora letto i precedenti articoli, ti suggerisco di farlo. In questo modo potrai apprezzare l’evoluzione del Teatro nel corso dei secoli e capire meglio come è cambiato.
- Il Teatro nell’Antica Grecia
- Il Teatro nell’Antica Roma
- Il Teatro nel Medioevo
- Il Teatro nel Rinascimento
- La Commedia dell’Arte
- Il Teatro all’Italiana
- La Riforma Teatrale di Wagner
Vediamo dunque dove ci hanno condotto tutte le trasformazioni che hanno caratterizzato la nostra Arte preferita.
L’EVOLUZIONE DEL PUBBLICO
Da un’epoca all’altra gli spettatori si sono evoluti, scegliendo con sempre maggior consapevolezza e autonomia di assistere ad uno spettacolo.
Nel nostro viaggio abbiamo scoperto che nell’antica Grecia prima e nella Roma imperiale poi, tutta la comunità era chiamata ad assistere alle rappresentazioni organizzate all’interno di importanti festività religiose, nel nome di una ritualità collettiva e di esaltazione politica del potere.
Nel Medioevo invece la volontà della Chiesa di tenere sotto controllo la comunità indirizza gli spettatori ad assistere a rappresentazioni di stampo liturgico, mettendo al bando qualsiasi altra forma spettacolare e quindi la possibilità di poter scegliere liberamente a che cosa assistere. Ci penseranno i Comici dell’Arte, i primi veri professionisti della storia del teatro, a dare la possibilità al pubblico di scegliere di assistere a spettacoli effervescenti e liberi da un contesto religioso.
La tappa nel Cinquecento ci ha fatto accomodare in mezzo ad un pubblico privilegiato, invitato direttamente dal Principe di una corte italiana a partecipare a feste sfarzose in cui gli eventi spettacolari si susseguono senza sosta. E’ un pubblico ancora legato al potere politico, che assiste allo spettacolo e al tempo stesso partecipa alla glorificazione del capo della città.
Ed ecco che finalmente tra la fine del Seicento e il Settecento e fino ai giorni nostri, con la nascita dell’imprenditoria teatrale e un proliferare di edifici teatrali nati con lo scopo di ospitare spettacoli di vario genere, lo spettatore sceglie in piena autonomia di acquistare un biglietto e assistere ad uno spettacolo che risponde in pieno ai propri gusti, che sia un melodramma o un dramma borghese o ancora una commedia brillante.
Il pubblico che incontreremo oggi è un pubblico nuovo, figlio dei grandi sconvolgimenti derivati dai disastrosi eventi bellici che caratterizzano il mondo del Novecento. Il più delle volte uscendo dal teatro gli spettatori non potranno dire di aver trascorso una serata di svago ma al contrario torneranno a casa pieni di dubbi e senza risposte.
Del resto vivendo un’epoca in cui odio e morte sembrano essere alla base dell’esistenza, anche solo provare a trovare delle risposte diventa impossibile.
IL CONTESTO STORICO-CULTURALE
“Il teatro non si limita a rispecchiare la vita, ma invece fa irruzione nella vita”
Majakovskij
Con lo scoppio delle due Guerre Mondiali il mondo viene capovolto. Le coscienze sono scosse, l’uomo perde ogni punto di riferimento.
In campo artistico questo malessere si traduce in una grande irrequietudine che porterà alla nascita delle avanguardie. Ovvero di correnti artistiche che in diversi campi – pittura, scultura, architettura, teatro – operano nell’ottica di scardinare le certezze della cultura verista dominante fino a quel momento.
Ecco che da questo momento sul fronte teatrale, diviene impensabile potersi sedere in una sala ed assistere ad una vicenda che una volta terminata lascia lo spettatore tranquillo e beato.
La nascita dell’industria dello spettacolo, per la sua natura imprenditoriale, ha dato vita ad un processo di mercificazione che pone al centro di tutto il teatro come prodotto, indirizzato ad un pubblico consumatore che guarda alla rappresentazione da un punto di vista essenzialmente disimpegnato. In un’epoca in cui l’ansia e la paura hanno il sopravvento su tutto, molti artisti decidono invece di utilizzare il teatro come mezzo per smuovere le coscienze e unire gli spettatori in un legame profondo con gli attori.
Autori come Pirandello, ma ancor più Brecht, Ionesco, Beckett, Mejerchol’d, rovesciano i punti fermi della messinscena dell’Ottocento. Le sicurezze del pubblico vengono scardinate, vengono toccate le coscienze. Le poltroncine di velluto non accolgono uno spettatore pronto a rilassarsi. Al contrario, lo spettatore che si alza a fine spettacolo è pieno di domande. Non è che il riflesso di una società che sta mutando, disgregata dai grandi conflitti mondiali. Il teatro diventa il luogo in cui prendono voce i dubbi dell’uomo ormai solo con se stesso, che si domanda perché sia successo tutto quello che è successo.
Vero è che il teatro non può competere, per estensione di pubblico, con la nascente industria del cinema prima e della televisione poi, tanto da venire lentamente relegato ad un ruolo “di nicchia”, riservato a ristrette cerchie di pubblico.
Ma, mentre nel cinema lo spettatore viene posto davanti a immagini finite e confezionate, lo spettatore del teatro entra in contatto diretto con l’attore e con la sua presenza reale e tangibile a pochi metri da lui. Se la parola non può esprimere il dramma che l’umanità sta vivendo, può riuscirci il corpo.
Il testo scritto si svuota lentamente dell’importanza avuta fino ad ora perché le parole non possono più esprimere il dramma che l’umanità sta vivendo. Ecco allora che l’attore prende il sopravvento con la sua presenza fisica entrando in contatto diretto con il pubblico. Uno scambio rituale e metafisico, che va oltre la semplice fruizione della messinscena come semplice rappresentazione.
E forse è proprio qui che si nasconde l’essenza della ricerca delle avanguardie: ritrovare nello scambio reciproco di energie tra spettatore e attore il legame comunitario, rituale e magico che sin dall’antica Grecia il teatro ha sempre avuto la forza di creare.
E far vivere l’esperienza teatrale come un’esperienza di vita, in grado di mutare la vita stessa.
LA DISGREGAZIONE DELLA TRADIZIONE
Per capire meglio la dimensione dell’innovazione portata dalle avanguardie novecentesche, riepiloghiamo alcuni tratti che caratterizzavano il teatro di fine Ottocento.
- I personaggi – detti “caratteri” – hanno tutti una natura umana fissa, immutabile. Lo scopo della messinscena è quello di svelare a poco a poco questa natura e i suoi segreti.
- Azione e dialogo sono le fondamenta del testo scritto. La rappresentazione si dipana grazie a scambi gestuali e soprattutto verbali tra i personaggi.
- Ciò che viene mostrato è dato allo spettatore non come finzione ma come uno spaccato della vita reale, nel quale ci si può – e ci si deve – immedesimare per provare emozioni purificatrici.
- Il testo scritto regna sovrano. Regia ed gli elementi scenotecnici servono solo ad illustrare il testo non arrivando mai a ricoprire un ruolo predominante.
- L’attore è il fulcro dello spettacolo, ma sempre al servizio del testo scritto. Ottiene applausi a scena aperta per i suoi virtuosismi ma non ha la piena consapevolezza del suo corpo e di quello che potrebbe trasmettere con esso.
- La sala teatrale è costruita in modo da dividere in maniera netta la parte riservata agli spettatori dal luogo in cui si svolge l’azione. Sipario e buio in sala proiettano lo spettatore in un mondo “altro” ma la divisione tra dentro e fuori dal palco rimane netta. Lo spettatore può provare emozioni e immedesimarsi ma non interagisce con l’evento scenico.
La morte di tre grandi autori della tradizione nei primissimi anni del Novecento – Cechov (1904), Ibsen (1906) e Strindberg (1912) segna un punto fondamentale nella decadenza del teatro verista praticato fino a quel momento.
IL METATEATRO DI PIRANDELLO
Il primo drastico cambio di rotta arriva in Italia con Luigi Pirandello.
Abbiamo più volte parlato di Pirandello nel nostro blog ed anche in questa occasione un accenno all’autore che ha cambiato il modo di interpretare il teatro è necessario farlo.
Pur essendo ancora legato alla tradizione del testo scritto, Pirandello rovescia la prospettiva con cui si osservano i personaggi. Influenzato dai recenti studi sulla psicanalisi, l’autore siciliano indaga profondamente sulla differenza tra forma e vita, tra essere e apparire.
Per poter essere accettato dalla società o in un determinato contesto, l’essere umano si trova costretto ad indossare di volta in volta delle maschere per poter compiacere gli altri, nascondendo la propria verità, il proprio Io.
Pirandello capisce che questo comporta il venir meno del principio della natura umana fissa e immutabile, così come la conoscevamo nelle rappresentazioni ottocentesche. L’essere Uno, nessuno, centomila rappresenta uno dei punti cardine del “pirandellismo”, rappresentato in opere come Così è (se vi pare) del 1917 e Sei personaggi in cerca d’autore (1921).
Nella prima opera il pubblico si domanda chi sia la signora Ponza: la seconda moglie del protagonista o la prima moglie, creduta morta anni addietro? La verità è impossibile da scoprire perché la signora in questione compare in scena soltanto alla fine della commedia, per di più con il volto velato. Rivelerà di essere contemporaneamente l’una e l’altra donna, ma per se stessa nessuno. Proprio perché imbrigliata nell’opinione che gli altri hanno di lei. In poche battute tutte le certezze del teatro vengono a cadere ed ogni singolo spettatore si alza dalla poltroncina con la sua personale risposta e il dubbio che possa essere davvero quella giusta.
Nei Sei personaggi i protagonisti sono sospesi tra la finzione dell’essere personaggi, nati dalla penna di un autore, e il desiderio viscerale di portare sulla scena il loro potenziale vissuto. Gli attori che dividono con loro la scena diventano comparse, testimoni dell’impossibilità per quei personaggi di raccontare le loro verità. La parola, fino a quel momento protagonista dei testi teatrali inizia a perdere la sua efficacia. Non c’è possibilità di dialogo tra i numerosi personaggi che dividono la scena.
Come dice il Padre rivolgendosi al Capocomico:
“Come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me, mentre chi le ascolta inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé? … Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai!”.
Il dramma rimane irrappresentabile, il dialogo perde senso, sostituito da monologhi rabbiosi che eliminano ogni possibilità di contatto.
Sei personaggi appartiene, assieme a Ciascuno a suo modo (1924) e a Questa sera si recita a soggetto (1930), alla trilogia dedicata al metateatro, il teatro nel teatro. Con questo espediente tecnico il teatro racconta se stesso rendendo rappresentazione drammatica i momenti delle prove, i battibecchi tra gli attori, le correzioni apportate dal regista.
Lo spettacolo proposto non è più un mondo concluso in se stesso e con l’abbattimento dell’illusoria quarta parete che separa gli attori dalla sala buia l’immedesimazione del pubblico nella vicenda, tanto cara al teatro del passato, viene meno. Addirittura Pirandello per rimarcare allo spettatore che ciò cui assiste è finzione, si avvale dell’espediente di far camminare gli attori/personaggi tra il pubblico nella sala, inizia la rappresentazione a sipario già alzato, realizza alcune scene nei foyer dei teatri.
Grazie a questi primi tentativi altamente riusciti di rottura con la tradizione, lo spettatore diviene sempre più cosciente di quello cui sta assistendo. Non la realtà, ma finzione scenica. Sono state gettate le basi per un approccio consapevole allo spettacolo. Bertold Brecht lo comprenderà perfettamente e con il suo teatro epico smuoverà irrimediabilmente le coscienze del pubblico.
Pirandello opera però ancora nell’ambito del teatro di tradizione e la sua produzione, pur compiendo delle innovazioni, non ha ancora la forza di divulgare un messaggio rivoluzionario come invece avverrà con l’arte fortemente politicizzata di artisti del calibro di Vsevolod Emilevic Mejerchol’d e di Bertold Brecht.
Di Sconosciuto – PirandelloOnline, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=21198293
IL TEATRO POLITICO
Iniziando a comprendere la capacità di convincimento che può sviluppare la presenza fisica dell’attore davanti al pubblico, in un’epoca in cui l’agitazione delle masse contro al potere imperante si fa sempre più forte, il teatro si riscopre determinante per essere usato come un’arma politica.
Nasce il teatro agit-pro (agitazione e propaganda) che si sviluppa in maniera innovativa al di fuori delle sale teatrali, costruite come sappiamo per separare nettamente il pubblico dalla scena. Nell’ottica di creare un rapporto stretto e viscerale tra spettatore e attore, lo spettacolo viene allestito nelle piazze, nei cortili, nelle fabbriche dismesse. Chi lo porta in scena non è necessariamente un professionista del settore: operai, impiegati, militanti politici impugnano l’arma pacifica del teatro per accendere la presa di coscienza delle masse sui problemi quotidiani di un mondo segnato da un odio senza senso.
In Russia Mejerchol’d (1847-1940), allievo di Stanislavskij, si discosta nettamente dalla visione naturalistico-ottocentesco improntata sull’immedesimazione dell’attore portata avanti dal suo Maestro.
Il Teatro d’Arte di Stanislavskij viene finanziato da Lenin per acculturare il pubblico proletario attraverso la lezione della cultura borghese, a patto però di rimanere apolitico. Il suo allievo rivoluzionario (che morirà fucilato dai soldati di Stalin) è convinto che l’attore che vive la realtà in quegli anni così difficili non possa e non debba rimanere indifferente e neutrale. L’artista deve capire chi sta interpretando e se si tratta di un personaggio negativo deve “smascherarlo”. Conservando un atteggiamento ironico e scettico nei confronti degli avvenimenti cui prende parte, l’attore deve arrivare a “denigrare” il personaggio per impedire che lo spettatore si identifichi con il delinquente che viene mostrato sulla scena.
Allo studio approfondito e critico dei personaggi, Mejerchol’d affianca l’estrema importanza di un allenamento costante del corpo dell’attore. Con l’invenzione della Biomeccanica, Mejerchol’d studia un sistema di allenamento dell’attore da mettere in atto prima di approcciarsi al testo scritto e alla recitazione in senso stretto. Attraverso un elaborato training, fissato in vere e proprie regole scritte, l’attore deve imparare a forgiare e controllare il proprio corpo. Conoscerne movimenti e meccanismi, proprio come un meccanico lavora sulle macchine industriali per migliorarne le funzioni.
Inizia così un processo che valorizza sempre di più la corporeità rispetto al testo scritto. Solo dopo aver perfezionato il fisico l’attore può concentrarsi sulle emozioni del personaggio e sull’analisi del testo. Un’eredità importantissima che verrà raccolta a piene mani da attori e danzatori e, primo fra tutti, dal polacco Jerzy Grotowski che con la sua idea di teatro povero – troverai un accenno alla fine dell’articolo – metterà la fisicità dell’attore in primo piano su tutto.
Ben più conosciuto, Bertold Brecht (1898-1956) opera in Germania la stessa rivoluzione sull’interpretazione che Mejerchol’d opera in Russia.
Il suo teatro viene definito teatro politico ma anche teatro epico.
L’aggettivo epico viene utilizzato in senso prettamente tecnico e rimanda alla distinzione fra epico e drammatico operata da Aristotele nella Poetica. Mentre nella rappresentazione teatrale canonica il personaggio si presenta da solo senza intermediari, mostrandosi al pubblico con tutte le sue emozioni, nel poema epico troviamo un narratore che racconta e guida il lettore o l’ascoltatore durante il dipanamento della vicenda, mediando così tra personaggio e pubblico.
Il teatro epico quindi presuppone la presenza di un io epico, un narratore che sta al centro dello spettacolo e lo organizza, lasciando il pubblico distaccato dal racconto. In questo processo è necessario che l’attore rimanga distaccato rispetto al suo personaggio, raccontandolo anziché interpretandolo. Distanziando lo spettatore rispetto alla rappresentazione.
Si mette in atto il processo di straniamento ideato da Brecht, in cui si elimina l’immedesimazione dell’attore con il personaggio per evitare che anche lo spettatore si immedesimi e provi empatia. Assistendo allo spettacolo il pubblico non deve provare emozioni, ma cogliere nella vicenda l’occasione per una crescita intellettuale e sociale. Solo con un atteggiamento razionale il pubblico accresce una consapevolezza critica e può comprendere la condizione umana come trasformabile e da trasformare, solo e soltanto attraverso la lotta politica.
Per facilitare il processo di straniamento, Brecht sistematizza una serie di soluzioni che diventeranno il segno distintivo di opere come Terrore e miseria del Terzo Reich, Madre Courage e i suoi figli, Opera da tre soldi. Titoli e cartelli proiettati con funzione di anticipazione delle scene, canzoni che spezzano il racconto e commentano le vicende, fotografie, visibilità della strumentazione tecnica. A questi espedienti tecnici affianca precise scelte compositive e registiche fortemente politicizzate. Deciso a far comprendere con il suo teatro quanto sia pericolosa e assolutamente da estirpare l’ideologia nazista, egli vi oppone un programma semplicissimo ed accessibile a tutti. Il suo teatro è molto lontano dall’essere un teatro borghese. Anzi, è il primo vero esempio di teatro autenticamente popolare, in cui non si può certo puntare su inquietudini metafisiche o psicologiche, ma al contrario su valori stabiliti, conosciuti, la difesa della famiglia, della pace, del coraggio, del lavoro.
E sperare che attraverso il suo teatro possa un domani prevalere la giustizia.
IL TEATRO DELL’ASSURDO
Se Brecht confida nel teatro per smuovere le coscienze, a partire dai primi anni Cinquanta si evidenzia un teatro di tutt’altro stampo. Con il Teatro dell’Assurdo si cerca di esprimere il disagio di una civiltà che ha vissuto eventi storici in precedenza inimmaginabili e l’assurdità dell’esistenza umana.
Figure di spicco di questa Avanguardia sono Eugène Ionesco (1912-1994) e Samuel Beckett (1906-1989). Entrambi evitano di colorare i loro testi di impegno politico e riflettono sui grandi temi esistenziali: la falsità dei rapporti sociali, la solitudine, l’incomunicabilità, l’insensatezza del vivere, il mistero della morte. Nell’affrontare queste tematiche rimettono in discussione il linguaggio, destrutturandolo e in alcuni casi dissolvendolo, segno che la parola sta sempre più velocemente perdendo tutto il suo significato.
Ionesco in opere come La cantatrice calva e I rinoceronti porta in scena l’assurdo del quotidiano, soprattutto degli ambienti borghesi, come segno evidente della falsità dei rapporti sociali. Il dialogo tra le persone perde di significato e la penna dell’autore si concentra sulla parodia dei luoghi comuni della comunicazione sociale. Dando vita a ironici scambi di battute, caratterizzati da veri e propri deliri verbali, caratterizzati da nonsense e paradossi. Parole ed oggetti si moltiplicano sulla scena in assurdi sproloqui, che alla fin fine si rivelano del tutto privi di scopo. Una vita di relazione condivisa non sembra più possibile e l’uomo si scopre solo con se stesso.
La forma teatrale preferita diviene l’atto unico, un testo breve fino a quel momento messo in secondo piano e considerato poco impegnativo. Ma l’atto unico è una concentrazione drammatica che riesce a cogliere perfettamente l’essenza della condizione esistenziale attuale, imbrigliata in un drammatico periodo storico.
Anche Beckett si avvale di questa forma drammatica ma il risvolto è ancora più pessimistico. Alla concentrazione temporale egli fa corrispondere anche un restringimento spaziale tanto che alcuni dei suoi personaggi sono fisicamente bloccati sulla scena, seduti su una sedia a rotelle – Finale di partita – o interrati nel suolo – Giorni felici.
L’assurdo in Beckett non riguarda più l’incomunicabilità ma l’intera esistenza.
Aspettando Godot lascia il pubblico ad attendere, insieme ai personaggi, qualcosa o qualcuno che alla fine non arriverà. Allora non è tanto l’oggetto dell’attesa ad essere importante ma la condizione drammatica dell’attendere, l’inutilità dell’esistenza, percepita come attesa senza scopo, lungo preludio alla morte. La vita non può più essere vissuta appieno ma viene percepita come puro accidente, un risveglio momentaneo che presto o tardi porterà alla morte definitiva. Una metafora lucida e implacabile dell’esistenza umana, evidenziata da una condizione fisica di handicap dei personaggi ogni volta sempre più evidente. Dalla cecità al rimanere mutilati in alcune parti del corpo. Fino ad una perdita totale della parola che lascerà definitivamente l’essere umano solo e disperato.
Significativamente Beckett scrive alcuni brevissimi Atti senza parole, costituiti da lunghe didascalie senza neanche una battuta. Beckett ha compreso perfettamente che di fronte a certi eventi l’uomo non può far niente se non attendere la fine in un pessimistico mutismo.
LA RITUALITA’ DEL TEATRO
Nel corso di questo approfondimento ho parlato più volte del desiderio degli uomini di teatro del Novecento di far rivivere l’esperienza magica e rituale del teatro antico. Abbandonando i freni tipici del teatro dell’Ottocento, viene proposta sulla scena la fisicità dell’attore che respirando e muovendosi a pochi metri dallo spettatore riesce a stabilire una connessione profonda con esso. Ecco perché viene naturale uscire dalla sala teatrale fatta e finita e spostare l’evento in altri luoghi, dalle strade a strutture tradizionalmente non rivolte al teatro, come i garage.
Vengono costruiti edifici multifunzionali – teatri totali – in cui studiare e fare musica, teatro, danza. L’architetto Walter Gropius nel 1927 ne progetta uno in Germania senza però riuscire a realizzarlo. La sala avrebbe dovuto ospitare un palco rotondo per ospitare il pubblico disposto tutto attorno a 360° e gli attori avrebbero avuto la possibilità di spaziare dal palco alla sala e interagire direttamente con gli spettatori.
Una lezione che verrà colta dal polacco Jerzy Grotowsky (1933-1999) che insieme al suo allievo Eugenio Barba direttore e fondatore dell’Odin Teatret, viene considerato uno dei padri del teatro contemporaneo. Egli concepisce l’idea di un teatro povero, le cui caratteristiche vengono descritte nel saggio del 1968 Per un teatro povero. Impossibilitato a competere con il cinema e la televisione il teatro deve riscoprire la sua natura primigenia e profonda, il legame tra attore e pubblico.
Grotowsky parte dal presupposto che per esistere il teatro possa essere fatto da un solo attore e da un solo spettatore.
Non serve altro. Non serve l’allestimento scenico, i costumi, la luce, gli effetti speciali, fronzoli inutili che diventano trappole atte a mascherare la vulnerabilità dell’attore di fronte allo spettatore.
Occhi negli occhi si crea naturalmente la magia e l’energia necessaria affinché lo spettacolo si realizzi.
Attore e spettatore, uno di fronte all’altro si studiano e sono costretti a mettersi vicendevolmente a nudo, eliminando le proprie inibizioni. Per permettere che questo rapporto si instauri senza intoppi, Grotowsky studia profondamente la fisicità dei suoi attori. Sottoponendoli a un training faticoso scolpisce i loro corpi e li trasforma in contenitori sacri di un’energia che si libera una volta che lo spettacolo inizia. Gli attori, quasi nudi, scendono tra il pubblico, toccano gli spettatori, li coinvolgono nei loro movimenti con contorsioni e grida appositamente studiate per violare l’intimità degli spettatori e le loro pulsioni.
Il pubblico torna a casa non ponendosi le domande suscitate dal teatro politico di Brecht ma tornano a casa purificati da un’esperienza quasi mistica.
Nel corso degli anni questo modo così viscerale di fare teatro viene ripreso all’estero in America prima e poi nel resto del mondo attraverso gli happenings. Sono eventi che si svolgono all’aperto coinvolgendo quante più persone possibile. Spesso sono improvvisati e irripetibili perché non è più l’opera che conta ma l’azione del farla.
Gli artisti che danno vita a questa nuova forma d’arte creano un’arte il più possibile vicina alla natura, che si forma sotto gli occhi del pubblico ma anche degli attori stessi. Si arriva alla rinuncia quasi totale dell’elemento dialogico a favore del suono, del gesto, del materiale pre-verbale. Nel 1947 Judith Malina e Julian Beck fondano a New York il Living Theatre, un luogo nel quale viene istituzionalizzata l’arte dell’happening. Nei loro spettacoli fanno ricorso a linguaggio aggressivo, nudità fisica, vere e proprie aggressioni, tanto che nelle repliche ogni sera gli attori devono scambiare i ruoli per non subire le violenze che lo spettacolo prevede. Un modo decisamente diretto per scuotere gli animi del pubblico.
Ai giorni nostri possiamo riconoscere un barlume di questi eventi nei flash mob, spettacoli che appaiono improvvisati ma che in realtà sono ben studiati a tavolino. Rimane vivo e improvvisato il coinvolgimento del pubblico che si trova in quel momento ad assistere allo spettacolo, rendendo ogni volta diversa la riuscita dell’evento.
QUALE FUTURO PER IL TEATRO?
In questo nostro viaggio alla scoperta delle trasformazioni attraverso le quali il Teatro si è evoluto per arrivare ad essere come lo concepiamo oggi, sia come spettatori che come attori, abbiamo capito una cosa fondamentale:
Il Teatro è vivo.
Cambia, si trasforma e si evolve, proprio come un essere vivente che si adatta alle condizioni dell’ambiente. E così continuerà a fare in futuro, perché nonostante tutta la tecnologia, il Teatro resterà sempre una delle espressioni più primitive della natura umana.
È stato un piacere accompagnarvi alla scoperta della storia del teatro e del modo in cui il pubblico è cambiato e maturato nel corso dei secoli. Ogni periodo storico ci ha accolti con spettacoli strabilianti o riflessivi, con innovazioni scenotecniche sempre più meravigliose, con luoghi che lasciano il pubblico a bocca aperta.
Ma in qualsiasi epoca lo spettatore abbia vissuto sa che laddove metterà piede in un teatro potrà sentirsi ogni volta a casa.