La regia teatrale italiana nel Novecento è spesso declinata al maschile, ma un ruolo importante hanno ricoperto anche le donne. In questo articolo quindi conosceremo più da vicino la prima regista teatrale italiana: Mina Mezzadri.
Gli studi e la Compagnia della Loggetta
Mina Mezzadri nasce a Brescia nel dicembre del 1926. Inizia gli studi di pianoforte e si iscrive alla facoltà di filosofia, ma dopo aver assistito ad alcuni spettacoli firmati da Giorgio Strehler a Milano viene catturata dal mondo del teatro. Cambia i suoi piani e il teatro diventa la sua ragione di vita.
Nei primi anni Sessanta, partendo dall’eredità del Piccolo Teatro della Città di Brescia (attivo dal 1951 al 1954), fonda – insieme a Renato Borsoni e un gruppo di attori e attrici, la Compagnia della Loggetta, che dirige per i primi anni.
La giovane Mina ricopre inizialmente il ruolo di costumista, successivamente di attrice e poi, infine, di regista.
Il Piccolo Teatro aveva come modus operandi il tentativo di “sprovincializzazione” del panorama culturale della città. Lo steso obiettivo sarà portato avanti dalla Compagnia della Loggetta che si impone sul territorio per il proprio impegno nei filoni del “teatro documento” e della sperimentazione.
Il tentativo di “sprovincializzazione” verrà portato avanti attraverso lavori proposti in tutto il Paese, andando dalle grandi città ai centri periferici.
Il modo di fare teatro di Mina Mezzadri

Il teatro a cui dà vita la regista Mina Mezzadri è strumento sia di espressione artistica, sia di analisi sociale e politica.
È un teatro “documento” che si apre non solo a un pubblico di specialisti ma anche a semplici curiosi, dando vita ad accesi dibattiti.
Porterà sulla scena bresciana grandi autori, allora quasi sconosciuti, come Jean Genet con lo spettacolo “Le serve”.
Ma Mezzadri darà spazio anche a Georg Büchner con “Leonce e Lena” e a Samuel Beckett con “Finale di partita”. Si dedica anche ad autori italiani come Italo Svevo mettendo in scena la prima rappresentazione italiana della Rigenerazione nel 1966.
Quanto ai testi classici, la regista teatrale Mina Mezzadri lavora su di essi destrutturandoli e analizzandoli, in maniera assolutamente personale. E arricchendoli di notizie sugli autori: fra questi Eschilo, Molière, Carlo Goldoni e Anton Cechov.
Nel suo teatro documento sono moltissimi gli allestimenti e vari i generi coperti: dalle storie d’amore con “Eloisa ed Abelardo” (1966), alla satira politica con l’opera “Lettere a un sindaco” (1968) che ha come protagonista il potere comunale locale e basata su documenti municipali.
Il suo teatro documento passa anche a polemiche storiche con lo spettacolo “Dietro il ponte c’è un cimitero” (1968-69), una rievocazione polemica della Prima guerra mondiale a cui viene data vita attraverso le lettere dei soldati.
Fra le sue varie ricerche e sperimentazioni, Mezzadri si dedica anche alla riscoperta della tradizione dialettale, mettendo in scena “La curt dei Pulì” e “La massera da bè”.
Il teatro di Mina Mezzadri in Italia
Nel 1969 abbandona la Compagnia della Loggetta per spostarsi in altre città italiane.
All’inizio degli anni Settanta arriva a Genova ed è regista, nella stagione ’70-’71 al Teatro Stabile.
Nel 1973 è a Milano al Teatro Litta e un paio d’anni più tardi, insieme con Delia Bartolucci e Franco Sangermano, fonda la cooperativa teatrale “Teatro Tre”.
Con Teatro Tre mette in scena opere di August Strindberg come “Il pellicano “(1975) e “Il padre,” ma si dedica anche a “Luci di Bohème” (1976) dando voce a Ramon Valle-Inclan. Instancabile, Mezzadri passa poi a Henrik Ibsen con “Rosmersholm” e a Gabriele D’Annunzio con “Sogno di un tramonto d’autunno” (1981-82), dando ancora una volta spazio al teatro italiano.
Mezzadri si dedica molto anche all’insegnamento.
Oltre ai corsi tenuti alla Loggetta, la regista insegna anche a Genova alla scuola del Teatro Stabile per quasi due anni, mentre ne dedica quindici alla Civica Scuola d’Arte Drammatica del “Piccolo Teatro” di Milano, sia nei corsi di recitazione che di regia.
A questo si aggiunge anche il corso di recitazione teatrale tenuto nel 1996 al Centro sperimentale di cinematografia di Roma.
Il ritorno a Brescia
Negli anni Novanta Mina Mezzadri torna nella sua Brescia portando una serie di allestimenti estivi che variano di genere.
“Sparsa le trecce morbide” (1993) nel complesso di Santa Giulia, in cui secondo la tradizione sarebbe morta Ermengarda, “Adelchi” di Alessandro Manzoni (1994) nell’area monumentale di via Musei, in cui si trova Santa Giulia, “La colonna infame “(1995) alla Pinacoteca civica Tosio Martinengo e “L’amore di don Perlimplin” di Federico García Lorca (1998).
L’attività della regista nella sua città continua anche con l’inizio del nuovo secolo.
E nella stagione 2001-2002 porta in scena una sua versione del “Tristano” di Thomas Mann.
La sua ultima regia è datata 2007, scritto dalla regista ormai ottantenne, ed è una variazione del “Riccardo III” di William Shakespeare.
Da ricordare poi “L’inverno di Diderot”, un testo in cui riafferma il «paradosso di Diderot» contro l’immedesimazione nel personaggio di chi recita a favore dello «straniamento» brechtiano.
Nel 2007 è insignita della medaglia d’oro della Città di Brescia e nel 2008 del Premio brescianità. Dopo lunga malattia, Mina Mezzadri si spegne a Brescia il 19 agosto 2008.
La regia di Tartufo
Come detto, Mina Mezzadri era solita concentrare l’attenzione non solo sull’opera, ma anche sul suo autore.
Così era accaduto anche per la messinscena di “Tartufo”, celebre commedia di Molière, andato in scena nel dicembre 1982 al Teatro Grande di Brescia.
Lo spettacolo però non ha goduto di molta fortuna.
Già furono poco felici gli inizi di questo progetto teatrale, dovuti ai contrasti tra l’attore dai contrasti Gabriele Ferzetti, scritturato per il ruolo di Orgone, con la regista.
Contrasti che portarono all’abbandono da parte di Ferzetti del progetto teatrale, durante le prove.
Il pubblico aveva inizialmente accolto lo spettacolo con applausi calorosi… ma la critica non si era trovata dello stesso avviso. Furono diverse le stroncature da parte di alcuni critici di quotidiani nazionali nei confronti della Mezzadri accusata di aver frettolosamente rivisitato il testo.
Fra questi Guido Davico Bonino su «La Stampa» aveva commentato: «la signora Mezzadri… armata in pari grado di presunzione e improntitudine… perché Tartuffe è un capolavoro che non tollera riduzioni…».
L’accusa rivolta alla regista era stata proprio quella di spostare l’ attenzione da Tartufo a Molière (com’era in realtà tipico di Mezzadri) per dar conto della «svolta» opportunistica dell’autore che dopo le polemiche e le censure suscitate dal primo allestimento dell’opera.